Denominazione di origine protetta, Indicazione geografica protetta, Specialità tradizionale garantita: l’Italia è prima in Europa per prodotti certificati e tutelati, con ben 278 denominazioni riconosciute nell’agroalimentare, dall’aceto balsamico tradizionale di Modena all’arancia del Gargano, dall’Asiago al Capocollo di Calabria. Batte la Francia che ne conta 226 e la Spagna che ne ha 185.
Un patrimonio che rappresenta un valore aggiunto e una garanzia per i consumatori che però non sempre sanno cosa c’è dietro le sigleDop, Igp e Stg e non ne riconoscono il valore. “Da una ricerca svolta da Qualivita è emerso che pochi italiani sanno cosa significano queste sigle – spiega all’Adnkronos Giuseppe Liberatore, presidente dell’Aicig, l’associazione italiana dei Consorzi indicazioni geografiche – una percentuale al di sotto del 10%”.
Troppo pochi, eppure “dietro queste sigle ci sono elementi fondamentali che distinguono i prodotti che le riportano da quelli generici – dice Liberatore – primo fra tutti: di questi prodotti sappiamo esattamente dove viene prodotta, trasformata e confezionata la materia prima che li compone”. Elemento da non sottovalutare, visto che per l’Ue l’indicazione dell’origine della materia prima non è obbligatoria.
“Altro aspetto fondamentale – continua Liberatore – è che si tratta di prodotti controllati e garantiti da un soggetto terzo, cioè da enti di certificazione riconosciuti dallo Stato e controllati a loro volta da un organismo internazionale che li accredita, che verificano che i produttori rispettino effettivamente le regole che si sono dati. E questo è indice di garanzia e di tutela per il consumatore”.
Prodotti tutelati a livello nazionale, europeo e, in alcuni casi, a livello internazionale: “i nomi dei prodotti, iscritti in un registro specifico, vengono tutelati a livello comunitario come patrimonio, come bene unico. Per fare un esempio, oggi è permesso esclusivamente al Parmigiano Reggiano di potersi fregiare di questo nome, ma mentre la tutela è garantita in Europa, il discorso diventa più difficile nei Paesi extra Ue ed è per questo che si sta cercando di fare accordi diretti con alcuni Paesi, come gli Stati Uniti, proprio per salvaguardare questi nomi”.
Ma qual è il percorso che c’è dietro alla denominazione? A monte ci sono un gruppo di produttori spesso già riuniti in un consorzio di tutela, organismo che mette insieme gli interessi di tutta la filiera coinvolta in quella produzione (ad esempio per un formaggio, si va dai produttori di latte a chi lo lavora e chi stagiona), un’associazione privata ma con funzioni pubbliche di tutela della denominazione, vigilanza e valorizzazione che gli vengono delegate dallo Stato.
Produttori o consorzio chiedono il riconoscimento di una denominazione, ma istruire la pratica significa non solo redigere una richiesta, ma anche e soprattutto corredarla degli elementi richiesti dal regolamento comunitario atti a dimostrare che quel prodotto sia davvero particolare e che abbia un legame con il territorio di provenienza.
Si avvia così una pratica che passa prima per Roma e poi per Bruxelles. I tempi minimi per ottenere la denominazione sono nell’ordine di tre anni, ma per lo più vanno da 6 a 8 anni “perché può innescarsi un tira e molla tra Comunità, proponenti, Stato membro fatto di domande e verifiche che richiedono tempo”. Insomma, un iter spesso complicato e lungo ma quando giunge a buon fine dà vita a una denominazione che certifica un prodotto di altissima qualità che andrebbe tutelato e comunicato al meglio.
In questo, in Italia “si deve fare di più per valorizzare queste produzioni: servono più informazione e più comunicazione al consumatore perché conosca davvero il valoro aggiunto di questi prodotti. Sono ancora in pochi a sapere esattamente cosa c’è dietro le denominazioni ed è per questo che abbiamo chiesto formalmente alla Gdo di prevedere dei corner specifici all’interno dei supermercati perché possano essere identificati al meglio. Laddove questo avviene, come in Francia, questi prodotti fanno da traino”.